Una bambina. Una bambina come tutte…beh, forse non del tutto uguale a tutte.
Sì, è vero…mangiava, si muoveva, parlava come tutti...ma lei era particolare. Poteva mangiare, ma solo cibi molli; poteva camminare, ma non poteva correre; poteva parlare, ma non urlare. I suoi genitori glielo proibivano. Non l’avrebbero mai perdonata se avesse osato disubbidire alle regole. E lei ci teneva moltissimo ai suoi genitori.
I suoi genitori erano molto apprensivi. “Sei troppo fragile” le dicevano.
E in fondo non avevano tutti i torti. Era una bambina di vetro Iulaodema. La pelle, gli occhi, i capelli, gli organi, tutti di vetro. Vetro.
Per questo i suoi genitori erano molto apprensivi. I cibi troppo duri avrebbero potuto scalfire il suo intestino; correndo avrebbe potuto cadere e rompersi; urlando…beh urlando c’era il rischio che una vibrazione troppo vigorosa delle sue corde vocali creasse delle crepe nel suo fragile corpo. Non la facevano nemmeno uscire di casa, se non in loro compagnia. “È troppo pericoloso per te! Il mondo è cattivo…soprattutto con chi è fragile!”
E così Iulaodema aveva vissuto sempre in casa. Al massimo usciva in giardino da sola, ma solo con le dovute protezioni. E non c’era nessun albero nel giardino. Troppo pericoloso per lei…avrebbe potuto arrampicarsi per cogliere il frutto più maturo. O semplicemente inciamparci e cadere. No. Niente alberi.
Ma come ogni cosa fragile, era anche bellissima. Quando le mattine di primavera usciva in giardino per vedere il sole sorgere dalle sue montagne, e il primo raggio della giornata la colpiva, si illuminava e diventava d’oro. Bellissima e fragile. Molti bambini sono arsi d’amore per lei, vedendola semplicemente una volta colpita dal sole e risplendere dei colori dell’arcobaleno.
Tutte la mattine usciva per ammirare il panorama dal suo giardino. Aveva una vista magnifica. Da una parte c’erano le montagne. Alte, immense, impenetrabili e misteriose. E dall’altra un fiume che si perdeva nell’orizzonte. Lo spettacolo era bellissimo. Ma spesso si chiedeva: “Chissà dove finisce quel fiume? E cosa ci sarà oltre quelle montagne?”. Se lo chiedeva spesso. E lo chiedeva anche a suo padre, così bravo a crearle realtà che lei non aveva mai visto.
Le raccontava di sconfinati campi di grano oltre quelle montagne, presidiate da immobili uomini vestiti di stracci e stranezza. Di vallate piene di papaveri, margherite, viole e rose canine.
E lei ogni volta chiudeva gli occhi e viaggiava per quei mondi fantastici. Correva scalza su quel tappeto di petali colorati, nuotava insieme ai pesci in quel fiume. Già…il fiume. Il fiume portava al mare.
“Cos’è il mare?” chiese una volta Iulaodema al padre.
Il mare è dove confluiscono tutte le acque del mondo. E non solo. È anche il luogo dei sogni non ancora sognati. È una distesa infinita d’acqua capace d’amore…capace di morte.
E la sua voce…ah...la voce del mare…una voce potente. È un urlo. Un urlo così forte che molti sono impazziti dopo averla sentita. Molti hanno preso una nave e sono partiti, forse alla ricerca di un qualcosa, di un sogno. Forse per continuare a sentire la sua voce. Dicono che il mare aperto contenga la verità.
E i gabbiani! Che bellissimi messaggeri, intermediari tra uomini e sogni. Vivono sulla spiaggia, dove prendono i sogni e li consegnano alle persone che hanno un cuore abbastanza pulito da contenerli senza che si sciupino. Vivono sulla spiaggia. E quando giunge l’ora di ritornare nel tutto che li ha generati, vanno nel mare aperto. Per conoscere la verità prima di morire.
Iulaodema era affascinata dal mare. Quanto avrebbe voluto sentire la sua voce! Ma lì, nella sua villa lontano da tutto era impossibile sentirla. Doveva seguire il fiume! Voleva sentire almeno una volta la voce del mare.
Sì. L’avrebbe fatto!
“Non si può! Il rumore delle onde del mare è troppo forte per le tue fragili orecchie! Rischieresti di rimanere sorda…o magari peggio! E poi i gabbiani…fanno un casino infernale!” le aveva risposto una volta la madre.
Sarebbe dovuta andare di nascosto. Ma questo avrebbe spezzato il cuore di cristallo dei suoi genitori…che fare allora? Rinunciare a sentire la voce del mare per non far morire i propri genitori, o partire, andare, fuggire per sentire almeno una volta la voce del mare?
Decise di andare di nascosto.
Fu così che arrivò in un punto in cui la terra si trasformò in sabbia, e il fiume in mare.
Il mare. I gabbiani. Finalmente li vedeva con i suoi occhi cristallini.
Ed era proprio come suo padre glieli aveva fatti immaginare.
Si bloccò allo spettacolo delle onde che si riversavano sulla spiaggia, per poi tornare indietro, e poi di nuovo sulla spiaggia, imperterrite nel loro tentativo di conquistare le terre.
E dei gabbiani, che a volo radente accarezzavano le acque per afferrare i sogni da donare alle persone.
E chiuse gli occhi.
E aprì le orecchie.
E ascoltò.
Ascoltò la voce del mare.
L’urlo del mare.
Le sue orecchie resistettero a lungo a quella voce. Era vero. Era molto forte la sua voce. Ma era anche dolce e leggera nella sua forza. Per questo resistette.
Ma in fondo il suo corpo era molto fragile.
Si sedette sulla sabbia.
E piano piano, a partire dai piedi, sorridendo, si sgretolò.
Il mare. Ora anche lei era diventata parte del mare.
Era diventata la spiaggia che permetteva ai gabbiani di far riposare le loro ali ferite dal vento.
E alle persone di inseguire i propri sogni.
Era diventata sabbia.